IL GIUDIZIO E LA CACCIATA DALL’EDEN (Gen 3,8-24)
Questi versetti ci presentano le conseguenze del peccato commesso dall’uomo e dalla donna, conseguenze che possono essere così riassunte: dopo la colpa, l’essere umano è una creatura ferita, ferita nella sua relazione con Dio, con l’altro, con il mondo. È questa l’altra faccia del progetto di Dio descritto nel capitolo precedente.
Il testo può essere facilmente diviso in tre parti: i vv. 8-13 contengono la requisitoria di Dio contro l’uomo e la donna, condotta con uno stile tipicamente giudiziario. I vv. 14-21, invece, ci offrono la sentenza pronunziata da Dio sul serpente, sulla donna e sull’uomo. I vv. 22-24, infine, descrivono la scena della cacciata dal giardino. Come abbiamo già detto, questo testo deve essere letto senza dimenticare le tre sezioni precedenti, ovvero tutto l’insieme di Gen 2,4b-3,24.
1. L’INCHIESTA DIVINA (Gen 3,8-13)
Il v. 8 contiene un’immagine davvero suggestiva, che contrasta con il v. precedente (Gen 3,7) che descrive la vergogna dell’uomo che si scopre nudo. Il Signore è una presenza familiare, che cammina nel giardino alla brezza del giorno. Ma il giardino non è più un luogo di incontro; è adesso un luogo che incute paura, dal momento in cui l’uomo ha preteso di sfruttarlo. La stessa persona di Dio appare adesso un guardiano temibile, dal quale nascondersi.
Di fronte alla fuga dell’uomo, Dio non lancia accuse, ma cerca di porre l’essere umano di fronte alle proprie responsabilità: “Dove sei?”. Ora, è evidente che Dio non ha bisogno di porre una tale domanda, come del resto Dio non passeggia realmente nel giardino. La domanda è per l’uomo e significa: “dove sei arrivato? Che cosa vorresti fare, adesso?”. Dio offre all’uomo la possibilità di riconoscersi colpevole, ma l’uomo riesce a confessare soltanto la propria paura.
Dio continua a venire incontro all’uomo: “Che hai fatto?”, ma l’uomo non raccoglie questo ulteriore invito e risponde contrattaccando: è stata “la donna che tu mi hai posto accanto!”. In altre parole: io non ne ho colpa e, in fondo, è tutta colpa tua, perché questa donna io proprio non te l’avevo chiesta. Qui sta la vera gravità del peccato dell’uomo: il rifiuto di riconoscersi colpevole, di assumere le proprie responsabilità. La stessa cosa fa la donna, scaricando la sua colpa sul serpente, ma quest’ultimo non viene interrogato da Dio. La responsabilità è tutta dell’uomo e della donna; ancora una volta Dio punta sulla libertà d l’uomo, ma l’uomo si rivela incapace di usarla.
2. LA SENTENZA DIVINA (Gen 3, 14-21)
– Perché il mondo contiene oggi tanta sofferenza e tanto dolore? La risposta a questa domanda è cercata dall’autore di queste pagine attraverso la storia della condanna del serpente, della donna, dell’uomo. Il peccato ha introdotto nel mondo una disarmonia che non era stata voluta da Dio, che anzi alla luce del Nuovo Testamento, non è neppure pensabile all’interno del suo progetto di salvezza (Cfr. Gv 3,16).
– La prima sentenza di Dio è diretta contro il serpente e appare come una maledizione (attenzione: il testo ebraico dice “maledetto tra tutto il bestiame” e non “più di tutto il bestiame”, come se anche le altre bestie fossero maledette, ma un po’ di meno!). “Maledire” è il contrario di “benedire”, significa pronunciare una parola efficace per separare qualcosa o qualcuno dal mondo di Dio, cioè dalla vita, dichiararne il fallimento e la rovina. Dio non può maledire gli uomini, mentre lo fa con il serpente, prendendo così le distanze dal male. Cinque volte risuonerà questo verbo, che ascolteremo ancora in Gen 3,17, a proposito del suolo, in Gen 4,11, a proposito del peccato di Caino, in Gen 8,21, in relazione al diluvio, e, infine, in Gen 9,25, quando Noè maledice il figlio Cam. Maledire significa dissociarsi dal male e lasciare che il colpevole ne subisca le conseguenze.
L’effetto della maledizione serve tra l’altro a spiegare in modo molto popolare un fatto curioso: perché i serpenti non hanno le zampe? Si vede bene come il testo genesiaco cerchi anche di trovare risposte per noi ormai ingenue; questo è uno dei punti in cui cogliamo come la Parola di Dio passa necessariamente attraverso la mentalità del tempo nel quale è stata scritta.
– II v. 15, secondo il testo ebraico, annuncia che l’umanità (ossia la stirpe della donna) sarà sempre in lotta con il serpente; mentre quest’ultimo cercherà di addentare il calcagno degli uomini, questi cercheranno di schiacciargli la testa. Si rilegga al riguardo il bel testo di Gaudium et Spes 37: “tutta la storia umana è infatti pervasa da una lotta tremenda contro le potenze delle tenebre; lotta cominciata fin dall’origine del mondo, che durerà, come dice il Signore, fino all’ultimo giorno”.
– II v. 16 contiene la sentenza contro la donna, colpita nel suo essere moglie e madre: i dolori del parto e la sua condizione di inferiorità rispetto all’uomo. Ma il testo non vuoi dire che la donna dovrà sempre soffrire ed essere sottomessa al marito. Anzi, tutto ciò è visto come un frutto negativo del peccato che, in realtà, non dovrebbe esistere, così come non esisteva nel progetto originario di Dio.
– Allo stesso modo, ai vv. 17-18 l’uomo viene colpito nel suo essere lavoratore. Il “coltivare e custodire” il giardino (Gen 2,15) non è più vissuto in un rapporto di comunione con il creato; l’aver voluto “mangiare” il frutto dell’albero, l’aver preteso di dominare sulla realtà, ha frantumato il rapporto con la natura, che ora si ribella e si rivela ostile all’uomo. Il lavoro non è affatto una condanna; lo è quando l’uomo crede di poter sfruttare il creato.
– II v. 19 “polvere sei e polvere ritornerai” è stato spesso travisato; l’uomo sarebbe stato condannato a morte da Dio, mentre prima del peccato sarebbe stato immortale. In realtà, niente nel testo di Gen 2 lascia pensare che l’uomo non sarebbe mai fisicamente morto. Inoltre, resta il fatto che l’uomo non muore, ma continua a vivere, anche dopo il peccato. Anche senza peccato l’uomo di Gen 2-3 avrebbe sperimentato la morte fisica; ciò che cambierà, sarà il suo rapporto con la morte, che d’ora in poi assume un aspetto tragico e diviene non più il passaggio a un’altra vita (la “sorella morte” di Francesco d’Assisi), bensì il segno del proprio limite invalicabile di creatura. Su questa linea è fondamentale la lettura che di Gen 2-3 farà il libro della Sapienza (in particolare Sap 1,13-14).
– Sorprendentemente, la scena della condanna si chiude con due piccole note di speranza: in primo luogo, il nome dato alla donna, in ebraico hawwah, Eva, dal verbo ebraico hayah, “vivere”. Chiamare la donna “Vita”, a questo punto della storia, è segno che non tutto è perduto. Inoltre, Dio non caccia l’uomo dal giardino nudo, e quindi privato della sua dignità. Lo riveste di tuniche di pelli, segno cioè di una nuova dignità donata all’uomo dalla tenerezza divina. Questa storia ci aiuta perciò a valorizzare i piccoli segni di speranza che Dio dissemina sul nostro cammino.
3. LA CACCIATA DAL GIARDINO (Gen 3, 22-25)
In questa breve scena si descrive, con l’aiuto di un linguaggio mitico (cfr. la figura dei “cherubini”), la cacciata dell’uomo dal giardino che viene motivata al v. 22 con una riflessione divina. L’uomo ha preteso di essere uguale a Dio e, in parte, sembra esserci riuscito. Ora non dovrà più avere accesso neppure all’albero della vita, perché non può vivere per sempre; la morte fisica sarà d’ora in poi sperimentata come una rottura, un dramma che separa l’uomo da Dio. Ma, come già si è detto, la via verso l’albero della vita non è chiusa del tutto. L’albero della vita lo ritroveremo infatti nelle ultime pagine dell’Apocalisse (Ap 22,2.14.19) donato da Dio agli uomini nella Gerusalemme celeste. Il giardino dell’Eden, dunque, non è perduto per sempre!
PER APPROFONDIRE
Questo versetto, Gen 3,15, ha avuto una lunga storia; grazie anche a un errore di traduzione di san Girolamo (che, com’è noto, tradusse la Bibbia dall’ebraico e dal greco in latino) e grazie all’influsso del testo di Ap 12, per lungo tempo la tradizione cristiana ha riletto il versetto 15 applicandolo alla Madonna, nuova Eva, che schiaccia il serpente sotto i suoi piedi. In realtà, come Giovanni Paolo II ci ha recentemente ricordato, la lotta non è tra il serpente e la donna, ma tra il serpente e l’umanità. Già la tradizione giudaica, alla luce di testi come Is 11,1-9, rilegge Gen 3,15 in chiave messianica; la stirpe della donna è in realtà il messia, che, alla fine, risulterà vittorioso sul male; per i cristiani, la stirpe della donna è così, in prospettiva, Cristo, che darà all’umanità la vittoria sul male. Solo in questo senso è possibile parlare di Gen 3,15 come di un lontano annuncio del vangelo: «L’esegesi cristiana (…) vede questo testo come ‘protoevangelo’ che preannunzia la vittoria su Satana riportata da Gesù Cristo»: Giovanni Paolo II, Catechesi del 26 novembre 1979.
PER RIFLETTERE INSIEME
1 | Gen 3,8−11 |
Dopo il peccato dell’uomo Dio si presenta di nuovo come il Dio del dialogo e della parola di alleanza riproposta, il Dio che cammina nel giardino vicino a noi. Egli interpella Adamo chiedendogli di prendere coscienza della sua situazione e condizione: “Adamo, dove sei?”. Nella nostra esistenza, abbiamo mai sperimentato questa vicinanza provocante e interpellante di Dio dopo il peccato e il fallimento? Nella celebrazione del sacramento della riconciliazione come viene garantita questa esperienza del Dio dell’alleanza mai revocata? |
2 | Gen 3,9−13 |
Il dialogo tra Dio e l’uomo dopo il peccato è volto alla presa di coscienza da parte dell’uomo delle scelte fatte. Eppure l’uomo fugge scaricando responsabilità su altri (l’uomo sulla donna i e su Dio che gliela ha posta accanto; la donna sul serpente). Molte volte anche noi cerchiamo di scaricare su altri la colpa dei nostri fallimenti. Perché ci comportiamo così? Cosa aiuta a diventare persone responsabili? Pensiamo che Dio potrebbe intervenire anche per limitare il male che ciascuno di noi fa? Come sostenere le nuove generazioni affinché ognuno assuma le proprie responsabilità? |
3 | Gen 3,11−12 |
Adamo è l’uomo disobbediente. In Rom 5,12-21 Paolo presenta Gesù come nuovo Adamo e l’annuncia come uomo nuovo realizzato perché obbediente: “Come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti” (Rm 5,19). Ripensiamo alla vita di Gesù, alle sue parole e azioni, in quali momenti si coglie la sua identità di Figlio obbediente |
4 | Gen 3,10−19 |
Ogni peccato porta con sé come conseguenza la rottura della comunione con se stessi, con gli altri, con il creato, con Dio. Raccontiamo nel gruppo episodi nei quali abbiamo colto questo rapporto tra peccato commesso e conseguenze di divisione e di rottura della comunione |
5 | Gen 3,3.18−22 |
Dietro il racconto di Gen 2-3 sta una domanda di fondo: perché l’uomo creato da Dio e da lui voluto muore? Perché questo “essere-per-la-morte” (M. Heidegger)? Come ci poniamo davanti alla morte? Quali sentimenti provoca in noi il pensiero della morte? Viviamo in una cultura che rimuove la morte e tende a nasconderla: che cosa dice questo testo all’uomo di oggi? Nella nostra comunità la catechesi e la predicazione ci aiutano a vivere giorno dopo giorno in pienezza, accogliendo la nostra finitudine e preparandoci a oltrepassare la soglia oltre la quale ci sarà la vita e non il nulla? Come prepariamo la celebrazione delle esequie nelle nostre comunità? Le persone colpite da un lutto avvertono la vicinanza della comunità cristiana, manifestata anche attraverso la cura della liturgia delle esequie? |
6 | Gen 3,14−15 |
II tentatore viene sconfitto e maledetto. Nell’antichità per indicare che un nemico era stato sconfitto si diceva che strisciava al suolo e mangiava la polvere. Davanti a un’apparente vittoria della violenza e delle logiche di morte come reagiamo noi credenti in Cristo? Come rendere ragione della speranza che è in noi, che il male cioè verrà completamente vinto? |
7 | Gen 3,17−19 |
“Lavorerai con il sudore della tua fronte”. Come affrontiamo la fatica del lavoro? Come viviamo l’insuccesso nella nostra attività? Come reagire quando l’uomo viene ridotto a macchina da produzione e il lavoro diventa alienante? Parliamo mai nelle nostre comunità dei problemi del mondo del lavoro? Abbiamo vissuto l’esperienza della disoccupazione? Come può e deve intervenire una comunità cristiana davanti ai problemi del lavoro? |
8 | Gen 3,15 |
L’espressione “essa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno” è in realtà un gioco di parole che va tradotto “ti colpirà la testa e tu le colpirai il calcagno”. Viene qui presentata una lotta che fino alla fine della storia opporrà il serpente e l’intera umanità. La vittoria finale dell’umanità è assicurata da Dio stesso. Quali esempi oggi di tale lotta? Siamo animati dalla speranza che la vittoria andrà all’umanità rigenerata da Dio in Cristo? |
9 | Gen 3,8−22 |
In Gen 3 troviamo attestato l’insorgere della paura come sentimento originario dell’uomo: si ha paura di se stessi, degli altri, di Dio. Prendiamo in esame la nostra vita: di che cosa e di chi abbiamo paura? Da cosa nascono le nostre paure? Il testo ci segnala la fuga come una delle tipiche reazioni al sorgere della paura. Quali esperienze di “fuga” abbiamo vissuto? Come affrontare le nostre paure? |
10 | Gen 2−3 |
L’analisi della condizione umana presentata da Gen 2-3 si sofferma sull’enigma della sofferenza e ce ne presenta alcune forme tipiche: il parto, il lavoro, la malattia, la morte. La sofferenza è sempre legata a un senso di precarietà e a una rottura, a qualcosa che dobbiamo in qualche modo subire. Quali esperienze di sofferenza abbiamo vissuto? Cosa abbiamo appreso su noi stessi e sull’identità umana in quei momenti? Possiamo dire che la sofferenza abbia un senso? |
11 | Gen 3,16−22 |
“Per l’autore del testo di Genesi quello di Dio più che un intervento punitivo, sembra un’offerta di salvezza. Quando li chiama, Dio, all’inizio, mette a disagio i protagonisti, li fa vergognare, ma alla fine ristabilisce la situazione, salva l’uomo. E come lo salva? Rendendo il limite percepibile, sensibile, in maniera che non si possa più dimenticare: partorirai con dolore, con fatica e sudore della fronte ti procurerai il cibo, finché tornerai alla polvere. A che servono quindi tutte queste pene se non a dire che Dio ha reso evidente, sia pure in maniera che fa soffrire, quel limite che l’uomo aveva tentato di ignorare, affinché non venga più dimenticato?”. Riflettiamo sui versetti del cap. 3 a partire da queste riflessioni del biblista R. Cavedo. |
12 |
Gen 3,21−22 |
“Signore fece per Adam e la sua donna tuniche di pelle”. La nudità nella Scrittura indica il senso della creaturalità. Dopo il peccato l’uomo e la donna percepiscono con disagio la loro condizione di creature perché lontani dal Creatore. Il testo esprime questa non accettazione con l’espressione “provarono vergogna”. Ci accettiamo a partire dalla nostra condizione creaturale che si esprime innanzitutto nei limiti che sperimentiamo: il condizionamento spazio-temporale, la finitudine, la fragilità, l’essere esposti a tutto anche al peccato? Accettiamo il dono gratuito di salvezza di Dio, qui rappresentato dalle tuniche di pelle, o tentiamo di autogiustificarci con le nostre sole forze? |
Cfr. anche Catechismo degli Adulti: ‘La verità vi farà liberi’:
nn. 370-377 lo scandalo del male; 1020-1024 la sofferenza; 1185-1189: la morte; 401-405: una storia di redenzione