Don Battista ci aveva abituato agli improvvisi cambiamenti e, anche in questa occasione, la sorpresa, dolorosa, non è mancata. Le ultime notizie che ci giungevano da Abbadia non erano cattive cosicché quella del suo decesso è stato un colpo improvviso.
Le decisioni, che prendeva don Battista, erano sempre meditate ma spesso risultavano sorprendenti per chi non era stato capace di valutare una situazione o una esigenza con la sua stessa velocità. Non sono molti a possedere le doti di don Battista: coraggio (sì, anche fisico) accompagnato da dolcezza di tratto e comprensione per gli altri, capacità introspettiva e rapidità di esecuzione, scarsa eloquenza (accentuata dalla difficoltà della lingua dopo la sua lunga permanenza all’estero) ma grande forza di persuasione.
Tutte doti già presenti nel pretino di fresca nomina che veniva lanciato dal seminario in una parrocchia nel 1945 alla fine di una guerra mondiale. Da un seminario dove le condizioni generali (freddo, scarsità di alimenti con tutto quel che segue: ricordiamo i “geloni“ che martoriavano le mani dei seminaristi) avevano certamente messo a dura prova la vocazione dei novelli sacerdoti.
E, nella Parrocchia, cosa trovava? Famiglie povere, provate dai distacchi famigliari, scarsità di mezzi di sussistenza, degrado dovuto alle occupazioni militari.
Nella primavera dell’anno 1945, quando don Battista giunse nella Parroccchia di San Giorgio, parte del territorio parrocchiale era occupato dai carri armati degli eserciti alleati, alcune Ville del Borgo Vico erano requisite dai militari. Rientravano dalle esperienze belliche, spesso su opposti fronti, o dalla prigionia anche in terre lontane i giovani che si trovavano disoccupati.
C’era molto da fare! Don Battista ci si mise con l’entusiasmo della giovinezza ma anche con una evidente e nello stesso tempo sorprendente maturità.
Per prima cosa non pretese di rifare il mondo ma di riutilizzare al meglio quello che era rimasto nel vecchio Borgo Vico e poi nei nuovi quartieri. Agevolò la ripresa delle organizzazioni sociali, che erano state cancellate negli anni del fascismo, cercò di collegare tra loro i reduci impegnandoli nelle attività dell’oratorio che andava organizzando per i ragazzi.
Nei pochi spazi disponibili intorno alla chiesa furono avviate attività ricreative, che poi si estesero fino alla creazione di un “campetto” di calcio in via XXVII maggio verso la valle di Vico.
La fortuna della parrocchia di San Giorgio è anche quella di affacciarsi sul lago e così una buona parte delle attività dell’oratorio si svolgeva in riva al lago dove nella bella stagione i ragazzi trovavano la loro “piscina”. Così si vide don Battista, in abito rigorosamente talare, anche se forse “provato” dalle molteplici attività, nonostante le cure della sorella Adriana, sorvegliare un nugolo di ragazzi che sguazzavano nell’acqua, aiutarli a calafatare il fondo del barcone, insegnare loro a remare (il remo non era sconosciuto ad Abbadia): una presenza, anche per i ragazzi che non frequentavano l’oratorio.
Quando il piccolo Bogio Villa, che nuotava davanti all’hangar in una zona non sorvegliata, fu tagliato quasi in due (tanto che morì) dall’elica di un motoscafista sbadato, lo tenne in grembo, come una mamma, fino all’arrivo dei soccorsi.
Nell’ottica del suo impegno pastorale don Battista volle conoscere le famiglie dei ragazzi che erano attratti dalle attività dell’oratorio e quindi visitò una per una le loro case con grande naturalezza.
I nostri genitori avevano poco tempo per recarsi di frequente in parrocchia e anch’io attesi questo incontro con una certa apprensione per come sarebbe avvenuta la conoscenza con il nuovo Vicario.
La sorpresa derivò dal fatto che mio padre, che dirigeva ”l’ufficio bagagli” alla stazione ferroviaria di S. Giovanni, già lo conosceva per aver avuto con lui, seminarista ma figlio di un casellante, una vivace discussione sulla possibilità di spedire un pacco diretto ad Abbadia secondo regole rigidamente applicate. Nell’occasione fecero la pace ed io ottenni l’approvazione paterna per le mie assenze da casa.
Due anni dopo l’inizio della sua attività, nell’estate del 1947, la Parrocchia di San Giorgio fu in grado di organizzare una vacanza collettiva a Tartano. L’esperienza si ripeté negli anni successivi e fu l’occasione per esprimere completamente l’amore per le nostre montagne che don Battista aveva saputo così bene interpretare e trasmettere ai ragazzi dell’oratorio. Memorabile era stata l’ascensione della Grigna Meridionale con celebrazione della Messa in vetta.
Venne anche l’ora del commiato. Don Battista lasciava una comunità che nel frattempo, sanate le ferite della guerra, andava avvicinandosi ai livelli del “benessere”. Dopo un’esperienza a Uggiate Trevano ed una presso il seminario come insegnante, lasciò l’Italia per il Brasile. Forse cercava un terreno di apostolato più simile a quello che aveva trovato all’uscita dal seminario, per esprimere in pieno le sue energie. La sua nuova vita si rifletteva nella Parrocchia di San Giorgio attraverso scarne notizie delle sue lettere: la sua partenza come un emigrante, su una nave mercantile, che aveva impiegato per portarlo al di là dell’Atlantico un tempo sufficiente per imparare il portoghese perfezionato poi con studi universitari, il suo continuo aggiornamento culturale sebbene dovesse affrontare nella sua nuova parrocchia difficoltà materiali non comuni.
Nei diversi luoghi in cui svolse il suo ministero ha avuto parrocchie estese per un centinaio di chilometri, villaggi sperduti con popolazioni impiegate nella coltivazione dei campi al limite della sopravvivenza.
I suoi ex ragazzi dell’oratorio di San Giorgio non hanno mai dubitato che don Battista non fosse in grado di superare ogni difficoltà e lo hanno festeggiato quando, dopo alcuni anni era rientrato, forse alla morte della sua mamma, per un breve periodo.
Era rimasto lo stesso che avevano conosciuto a San Giorgio e non si stupivano quando, parlando del suo ritorno in Brasile, diceva che “tornava a casa”.
Don Battista non aveva paura della vita che doveva affrontare e questo aveva cercato di insegnarci.
Tanti anni dopo, rientrato in Italia per ragioni di salute, aveva partecipato ai solenni funerali di don Giulio Noseda, un ragazzo dell’oratorio fattosi guanelliano.
Il presbiterio dalla chiesa del Sacro Cuore di via Tommaso Grossi era pieno di sacerdoti con le loro vesti bianchissime. Cercai con lo sguardo tra loro don Battista che era venuto da Abbadia e lo distinsi per le sua piccola statura, il volto bruciato dal sole e la barba ormai imbiancata: pregava con le mani giunte e gli occhi rivolti verso l’alto. Non ho potuto reprimere un moto di commozione.
Non è possibile terminare queste note senza ricordare la presenza di don Battista a San Giorgio in occasione del festeggiamento del cinquantesimo anniversario della Prima Messa di don Sandro Bonacina, che aveva collaborato con lui nelle attività dell’oratorio del 1945.
L’ultimo commovente incontro di don Battista con la sua prima comunità.
Giovanni Raité