Catechesi per adulti – Scheda 4

L’ESSERE UMANO NEL GIARDINO DELL’EDEN (Gen  2,4b-3,24)

1. INTRODUZIONE GENERALE

Perché due racconti della creazione? Sappiamo che il testo di Gen 2,4b-3,25 contiene una seconda narrazione della creazione che è ben diversa, nello stile e nel contenuto, da quella appena vista in Gen l,l-2,4a. Perché conservare entrambi i racconti? Non si tratta di voler rispettare due tradizioni ugualmente venerate, come spesso è stato detto. I due racconti, in realtà, sono entrambi necessari: Gen 1, infatti, risponde alle domande degli ebrei che si chiedono perché il mondo è fatto così, da dove viene e chi lo ha creato. Gen 2-3, invece, risponde piuttosto ad altre domande: Chi è l’uomo? Perché nel mondo c’è il male?

Prima di evocare il dramma del peccato, Gen 1 introduce il tema della bontà e bellezza del creato e dell’uomo, creato a “immagine e somiglianza” con Dio. Il mondo è un insieme di logicità e coerenza, misurato sui numeri sette e dieci, contraddistinto da una gerarchia che culmina nell’uomo. Gen 2-3, invece, introduce il tema della libertà, di un Dio che “scommette” sulla sua creatura. C’è una tensione morale tra l’uomo e Dio, che culminerà nel peccato descritto appunto in Gen 3. Il peccato non può comunque stravolgere il progetto di Dio: i due testi di Gen 1 e Gen 2-3 hanno bisogno l’uno dell’altro. Senza Gen 2-3, il mondo sembrerebbe troppo bello e poco realistico, ma senza Gen 1 il peccato dell’uomo apparirebbe una tragedia senza fine, che contraddirebbe il progetto stesso di Dio.

– L’autore di Gen 2-3 ha dunque in mente una serie di domande essenziali: Chi è l’uomo? Chi siamo noi? Perché nel mondo è presente il male? La risposta è cercata dal narratore alla luce dell’esperienza dell’esodo dall’Egitto, la cui storia appare tra le righe di questi due capitoli della Genesi. Ripensiamo brevemente al percorso fatto da Israele alla luce del libro dell’Esodo. Il Signore interviene a favore di Israele per liberarlo dall’oppressione del faraone (Es 1-15). Giunto al Sinai (Es 19-24), Israele entra in un rapporto di alleanza con Dio, impegnandosi ad essere fedele aIle “dieci parole” (Es 20,1-17). Ma presto, come già era avvenuto nel cammino nel deserto (Es 16-17), Israele abbandona il Signore per costruirsi un vitello d’oro (Es 32) ed è per questo che sperimenta, allo stesso tempo, il castigo e il perdono di Dio (Es 33-34).
Il testo di Gen 2-3 nasce per spiegare come mai questa logica (dono di Dio – peccato dell’uomo – punizione e perdono) è sempre stata presente nella storia. Fin dalle origini del mondo Dio ha offerto all’uomo la salvezza, lo ha creato e lo ha posto in una situazione ideale (il giardino dell’Eden), ma l’uomo si è chiuso di fronte ai doni di Dio, lo ha abbandonato e ha sperimentato così la punizione, ma, allo stesso tempo, anche il perdono del Signore. Così il testo di Gen 2,4b-25 rappresenta la parte positiva, l’azione di Dio e il suo progetto a favore dell’umanità; Gen 3, invece, la parte negativa, la risposta dell’uomo e la conseguente azione di Dio che allo stesso tempo punisce e offre la sua misericordia. Nel momento stesso in cui la storia umana sembra avviata al fallimento, quando l’uomo scopre la realtà del suo essere peccatore, Dio dimostra la sua grazia.

– Leggere questi due capitoli non significa cercare giustificazioni “storiche” del male presente nel mondo, qualcosa che un determinato uomo, realmente esistito (“Adamo”), avrebbe commesso alle origini dell’umanità; abbiamo visto che non è il taglio giusto con il quale leggere questi testi. Capire Gen 2-3 significa invece imparare a comprendere chi siamo noi, imparare a leggere la nostra storia alla luce del progetto di Dio, scoprire la vera radice del nostro peccato, imparare la speranza che ci viene dalla misericordia di Dio, capire soprattutto che il Signore ci ha creati come esseri liberi e responsabili e ci chiede di realizzare il suo progetto sul mondo.

– Il testo di Gen 2,4b-3,25 può essere facilmente diviso in quattro parti:
– In Gen 2,4b-17 viene di nuovo descritta la creazione dell’uomo, la sua collocazione nel giardino in Eden e la relazione positiva che l’uomo mostra di avere con Dio e con il creato.
– In Gen 2,18-25 viene descritta la coppia, come compimento del mistero dell’essere umano.
– In Gen 3,1-7 la narrazione ci presenta la scelta dell’uomo di porsi contro Dio e il suo progetto.
– In Gen 3,8-25 assistiamo alle conseguenze dell’azione dell’uomo: la rottura della relazione con Dio, con l’altro, con il creato; allo stesso tempo, si mostra l’esperienza della misericordia divina.

2. LA CREAZIONE DELL’UOMO E DEL GIARDINO (Gen 2,4b-17).
In questo testo, con poche parole, il narratore intende descrivere il progetto di Dio sull’uomo; l’azione di Dio è descritta con sette verbi (plasmò, soffiò, piantò, collocò, fece germogliare, prese, pose) che indicano la pienezza dell’agire divino; il culmine dell’azione di Dio è però nella parola che egli rivolge all’uomo, l’ottavo verbo della serie: “Diede questo comando” (v. 16).
– Prima dell’intervento di Dio, la terra è vuota e arida; manca l’acqua e manca l’uomo, che possa coltivare la terra. Al v. 7 la creazione dell’uomo è descritta in modo suggestivo: il Signore Dio “plasmò l’essere umano con polvere dal suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente”.
Ci sono diversi aspetti che vanno ricordati e ai quali occorre fare attenzione. In primo luogo, l’azione di Dio è descritta con il verbo che normalmente viene usato per l’azione del vasaio, “plasmare”; l’uomo è una creatura fragile, modellata con la polvere dalle mani sapienti di Dio, così come egli vuole. Si rileggano, alla luce di questa immagine, i bei testi di Ger 18,1-6 e Rom 9,20-21.
–  II termine “suolo” è in ebraico ‘adamah, mentre il termine “essere umano” è invece ha’adam; già nel nome, l’uomo è legato, con questo gioco di parole, al suo luogo di origine, la terra. Notiamo come ha’adam non significhi “Adamo”, ma “l’essere umano”, ovvero l’umanità in generale (in ebraico ha è l’articolo “il”, che mai si mette davanti ai nomi propri); si veda anche quanto detto a proposito di Gen 1,26-28, anche se il racconto di Gen 2 distingue la creazione dell’uomo da quella della donna. Quest’essere umano, plasmato da Dio, riceve da lui un “alito di vita”, cioè il respiro, la vita stessa, che dunque è dono di Dio.
Nei miti dei popoli vicini la creazione dell’uomo è descritta con immagini non troppo lontane da questa; gli uomini vengono creati mescolando argilla con il sangue di un dio, spesso di un dio ribelle, così che terrestre e divino siano mescolati insieme; inoltre, gli uomini vengono creati per fare il lavoro degli dèi, gli uomini non sono affatto liberi. Non così avviene nel racconto genesiaco: l’uomo, plasmato dalla terra, riceve la vita da Dio stesso e non è creato per essere il suo schiavo.

3. L’UOMO NEL GIARDINO DELL’EDEN (Gen.2,8-14)

– Al v. 8 appare il tema del giardino piantato in Eden, tema preso anch’esso a prestito dai miti dei popoli vicini e che avrà una lunga storia; il giardino dell’Eden diventerà nella tradizione ebraico-cristiana il “paradiso terrestre”. Eden significa in realtà “delizia” e il giardino, nel quale Dio colloca l’uomo che ha plasmato, appare come il luogo che Dio ha pensato per l’uomo. In questo giardino l’uomo potrà vivere in comunione con Dio, con l’altro uomo, con la natura. Il giardino non è una conquista dell’uomo, ma un dono gratuito di Dio, così come sarà, per Israele, il dono della terra promessa, nella quale Dio colloca il popolo che ha plasmato, così come ha collocato l’uomo nell’Eden. Il giardino è il simbolo del progetto di Dio pensato per l’uomo.
– Al v. 9 compaiono due alberi, tra i tanti che sono nel giardino, alberi che avranno una parte importante nella storia; il primo è l’albero della vita, che sta in mezzo al giardino e di cui l’uomo può mangiare. Contrariamente ai miti del tempo (in particolare al mito detto di Ghilgamesh, nel quale Ghilghamesh, l’eroe, non può aver accesso all’albero della vita) l’uomo non è creato per la morte, ma per la vita. Una novità del racconto biblico è il secondo albero, quello della conoscenza del bene e del male: quest’albero rappresenta la libertà morale, la capacità di decidere da soli che cosa è bene e che cosa è male. Il fatto che l’uomo non possa mangiare il frutto di questo albero ci ricorda che solo Dio è in grado di decidere che cosa è bene e che cosa è male e che la libertà non consiste nell’arrogarsi, da parte dell’uomo, una totale autonomia morale che escluda Dio dal suo orizzonte.

4. LAVORO E LIBERTA’ (Gen 2,15-17)

– II v. 15 ripete quanto detto nel v. 8 con un’aggiunta significativa. L’uomo, creato da Dio, è posto nel giardino “per lavorarlo e custodirlo”. Dunque la vocazione dell’uomo è il lavoro; lavorare non è una condanna caduta sull’uomo dopo il suo peccato: è invece uno dei fini per il quale l’uomo è posto nel giardino, coltivarlo e custodirlo secondo il disegno di Dio, in altri termini, collaborare all’opera della creazione. Coltivare e custodire qualcosa che all’uomo è stato affidato: l’uomo non è perciò il padrone del creato. A questo riguardo è sempre possibile rileggere le riflessioni proposte da Giovanni Paolo II nella Laborem Exercens, specialmente al n. 4.
Ma c’è di più: il verbo “lavorare” (‘abad) nella lingua ebraica indica anche il “servire” Dio nel culto; è un verbo che, in questo senso, si ritroverà più volte nel vocabolario dell’Esodo (cf. Es 3,12). Il verbo “custodire”, alla lettera “fare la guardia” (shamar), indica, sempre nel vocabolario esodico, il “custodire i precetti di Dio”. I due verbi, perciò, non sono scelti a caso: il fine per cui l’uomo è stato creato non è soltanto il lavoro, ma anche il culto, il servizio di Dio.
– I vv. 16-17 contengono la prima istruzione che Dio dà all’uomo; egli, come si comprende dal v. 16, ha a disposizione “tutti gli alberi del giardino”, compreso quello della vita, dunque. In altre parole, l’uomo riceve da Dio il dono della libertà e della responsabilità, che non consiste, tuttavia, nella possibilità di fare ciò che si vuole. L’unico limite della libertà dell’uomo, infatti, è Dio stesso. Mangiare il frutto del secondo albero (v. 17), quello della conoscenza del bene e del male significa arrogarsi il diritto di mettersi al posto di Dio, eliminare di fatto Dio dalla propria vita, credendo di poter decidere da soli ciò che è bene e ciò che è male; si rilegga al riguardo il bel testo di Dt 30,15-20. La libertà e la responsabilità dell’uomo si costruiscono in un rapporto positivo con il Signore, ma il Dio della Bibbia scommette sulla libertà umana.
La conseguenza di un simile atto è certamente la morte: ma in che senso? Il testo non dice “Se tu mangerai quel frutto io ti farò morire”, ma “Se tu mangerai quel frutto certamente morirai!” Morire non rinvia qui alla morte fisica (infatti, anche dopo il peccato, l’uomo continuerà a vivere!); morire significa aver distrutto la propria esistenza. L’uomo, senza Dio, è ormai lontano dalla vita e può trovare, al termine del suo percorso, soltanto la rovina.

PER APPROFONDIRE

  1. Si osservi come d’ora in poi il testo parli di Dio in modo nuovo; il capitolo 1, infatti, aveva utilizzato il nome ebraico ‘elohìm, tradotto in italiano con “Dio”; adesso, in Gen 2-3, si usa l’espressione nuova “Il Signore Dio”, in ebraico, yhwh ‘elohìm.
    Le quattro lettere ebraiche yhwh costituiscono il tetragramma, il nome di Dio, probabilmente un tempo pronunciato come yahweh, nome che tuttavia non viene pronunciato, per rispetto della sua sacralità (Es 20,7), e sostituito ogni volta con adonay, “Signore”, come continuano a fare anche le traduzioni moderne. Il nome di Dio Yahweh (e non “Geova”) è il nome rivelato a Mosè sul Sinai (Es 3,13-15), termine che significa, probabilmente, “egli c’è”, “egli è il Presente”. 
    Secondo la tradizione riportata in Es 3,13-15, ma anche in Es 6,2, solo con Mosè Israele prende coscienza del nome di Dio che i patriarchi ancora non conoscevano; secondo la tradizione contenuta in Gen 4,25-26, invece, tale nome è noto all’uomo fin dai tempi più antichi. Al di là di queste differenze di tradizioni, che rispecchiano una evoluzione religiosa di Israele difficilmente precisabile sul piano storico, il racconto di Gen 2-3, usando l’espressione yhwh ‘elohìm, il “Signore Dio”, vuoi far comprendere come il Dio (‘elohìm) che ha creato il mondo, il Dio di cui si parla in Gen 1, è lo stesso Signore (yahweh) che poi salverà Israele e che Israele stesso scoprirà nell’esperienza dell’esodo. Il Dio che crea è così lo stesso Dio che salva.
  2. Stupisce, nei vv. 10-14, trovare una notizia geografica, per noi incomprensibile. Dal giardino dell’Eden, dice il testo genesiaco, partono quattro fiumi, soltanto due dei quali, il Tigri e l’Eufrate, sono conosciuti. Il numero “quattro” rinvia ai punti cardinali e questo testo sembra dirci che tutta l’acqua del mondo proviene dall’Eden, cioè da Dio. Inoltre, ponendo la sorgente di fiumi famosi come il Tigri e l’Eufrate nel giardino dell’Eden, il testo vuole farci comprendere come tale giardino non è una realtà fuori dal mondo e dalla portata dell’uomo. Il disegno di Dio non è al di là delle capacità umane; il giardino è comunque “terrestre”, non è una illusione che si troverebbe solo in mondi a noi irraggiungibili.
  3. La concezione dell’uomo nell’Antico Testamento
    La maggior parte di noi pensa, un po’ semplicisticamente, che l’uomo sia descritto nella Bibbia come una somma di anima e corpo. La visione dell’uomo nell’Antico Testamento (ma per molti aspetti anche nel Nuovo) è invece molto diversa; l’uomo non è una somma di parti, ma un essere unitario, che, negli scritti ebraici dell’Antico Testamento, ci viene descritto attraverso una serie di vocaboli chiave, che indicano altrettante dimensioni dell’uomo stesso.
    3.1. Il primo vocabolo è in ebraico nefesh, che la vecchia traduzione latina traduceva indebitamente con “anima”, come ancora fa in molti passi l’attuale  traduzione  CEI. Il termine nefesh indica di per sé la gola (Sal 68,2: le acque mi giungono alla gola), come organo del respiro e del nutrimento. In senso metaforico, perciò, nefesh indica, come avviene proprio in Gen 2,7, l’uomo come “essere vivente”, inteso in particolare come essere che è mosso da emozioni e desideri (cfr. il celebre Sal 42,2: la mia nefesh – ovvero il mio animo, il mio io – desidera te). Nefesh, si può tradurre quasi sempre semplicemente con “essere”, “vita”, “animo”.
    3.2. Il secondo vocabolo che serve a descrivere l’uomo è basar, “carne”, che indica l’uomo nel suo aspetto di debolezza e creaturalità; nel Sal 56,5, “che cosa può farmi un uomo?” è in realtà, in ebraico, “Che cosa può farmi un basar”, cioè un essere fatto di carne. ‘Carne” indica poi la corporeità dell’uomo e in tal senso anche la sua relazione con l’altro; “carne dalla mia carne” Gen 2,23 indica la relazionalità che si stabilisce tra uomo e donna attraverso il corpo: “saranno una carne sola”, come si esprime Gen 2,24. Da qui ricaviamo che l’uomo non ha un corpo, ma è un corpo.
    3.3. Il terzo vocabolo è il termine ebraico leb, che indica il “cuore”. Nella prospettiva biblica il cuore non è, come per noi, simbolo del sentimento, quanto piuttosto è simbolo della ragione e della volontà, qualcosa di non lontano dalla nostra idea dì “coscienza”; così Gen 6,5 può parlare dei “progetti malvagi” concepiti dal cuore degli uomini. Con “cuore” si intende pertanto descrivere l’uomo nella sua dimensione razionale e volitiva; per parlare del sentimento, l’ Antico Testamento usa un termine per noi strano, le “viscere” (rahamìm), dall’ebraico rehem (“utero”), il luogo dell’amore materno.
    3.4. Un quarto vocabolo, fondamentale per comprendere la descrizione biblica dell’uomo, è l’ebraico “ruah” che di per sé, come in Gen 3,8, indica il “vento” Riferito a Dio (Gen 1,2) il termine indica la “forza attiva” di Dio, il suo spirito che, nel Nuovo Testamento, ci verrà rivelato come lo Spirito Santo. In riferimento all’uomo lo “spirito” è il “respiro”che l’uomo riceve da Dio (cf. Gen 2,7 e Sal 104,29-30) e che permette all’uomo di vivere e di entrare in relazione con Dio. Con questo termine, pertanto, l’Antico Testamento intende descrivere la relazione vitale che c’è tra l’uomo e Dio (cfr. il tema contenuto in Gen 1 ,26, l’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio).
     

In conclusione la visione dell’uomo riflessa nelle prime pagine della Genesi è, lo ripetiamo, sostanzialmente unitaria; l’uomo è dunque persona, un essere vivente a più dimensioni: è emozione e sensibilità (nefesh), sentimento (rahamim), ragione e volontà (leb), corpo e relazionalità (basar), spirito e trascendenza» (ruah) e quindi è un essere in relazione con Dio. In particolare, emerge la consapevolezza che il “corpo” dell’uomo è la sua stessa persona e non un “oggetto” del quale un ipotetico “io” spirituale è stato dotato: “Il corpo è espressione della personalità dell’uomo” (Giovanni Paolo II, Catechesi del 14 novembre 1970).

PER RIFLETTERE INSIEME

1 Gen 2,7

Il lavoro è la modalità con cui la persona si appropria del mondo, riplasma la materia, risponde ai bisogni, contribuisce allo sviluppo dell’umanità. Nel mondo occidentale, si è assistito negli ultimi secoli a una forte trasformazione dell’esperienza lavorativa. Quali cambiamenti sono avvenuti e perché? Quali sono i tratti positivi di questo sviluppo e quali i suoi limiti?

2 Gen 2,7

La Bibbia ci presenta l’uomo come un’unità biopsichica, come una carne animata e spirituale. I termini “carne”, “anima”, “spirito” nella Bibbia non indicano tanto parti o componenti della persona, ma tre diverse prospettive a partire dalle quali guardare la persona umana nella sua unitarietà. Abbiamo maturato questa visione dell’essere umano o siamo influenzati da una cultura che separa nettamente spirituale e materiale? Quali fattori filosofici e culturali hanno prodotto quella visione limitata e separatrice dell’essere umano che per lunghi secoli è stata predominante nella chiesa? Questo ha portato a una certa denigrazione del corpo: quale visione abbiamo della nostra corporeità? Siamo convinti che la carne è il cardine della salvezza, come dice Tertulliano? È ancora possibile usare il tradizionale binomio “anima-corpo” e in quale senso?

3 Gen 2,7

Ripensiamo al nostro rapporto con il corpo, quello nostro e quello degli altri. Condividiamo le nostre esperienze e le nostre scelte: come trovare una giusta misura nella cura del corpo (salute bellezza), senza cadere nella spirale dell’esaltazione del corpo propria della nostra cultura attuale? Come educare (figli, ragazzi della catechesi, giovani) al rispetto del proprio corpo e del corpo altrui (senza tabù, senza falsi spiritualismi, senza cadere nell’eccesso opposto del disprezzo del corpo)?

4 Gen 2,7

La vita dell’uomo dipende dal soffio che Dio pone nell’uomo e l’uomo non può farsi padrone della vita né al suo inizio, né alla fine. Perché oggi si cerca di dare la vita a tutti i costi (fecondazione in vitro, ecc.) e nello stesso tempo si rivendica il diritto a morire? Cosa pensiamo dell’accanimento terapeutico? Come ci rapportiamo di fronte alle notizie presentate dalla stampa su questi argomenti? Ci sono nelle nostre comunità confronti o discussioni su questi progetti?

Cfr. anche il Catechismo degli adulti  “la verità vi farà liberi”:
nn. 1112-1139 il lavoro; 1017-1018 la corporeità, corpo e anima